Onorevoli Colleghi! - A ormai più di quindici anni di distanza dall'approvazione della normativa sullo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni della criminalità organizzata è giunto il momento di fare una riflessione seria sulla necessità di un adeguamento che tenga conto, da un lato, dell'esperienza attuativa di questi anni e, dall'altro, di tutte le profonde modifiche che vi sono state nell'ordinamento degli enti locali, dalle modifiche al titolo V della Costituzione, alla elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province, alla separazione tra indirizzo politico, di competenza degli organi elettivi, e compiti di gestione, di competenza dei dirigenti, alla creazione di nuovi organismi di gestione dei servizi pubblici, come le società miste.
      Occorre, innanzitutto, ricordare che la normativa ha superato il vaglio della legittimità costituzionale solo perché la Corte costituzionale ha ritenuto con sentenza 19 marzo 1993, n. 103, che la circolare ministeriale attuativa prevedesse criteri interpretativi estremamente rigorosi, tali da ridurre al massimo i margini di discrezionalità delle autorità preposte all'attività di scioglimento (prefetto, Ministro dell'interno eccetera).
      Infatti la Corte costituzionale si pose il problema del giusto equilibrio tra diritto costituzionalmente garantito all'elettorato attivo e passivo e l'altrettanto rilevante esigenza della sicurezza e dell'ordine pubblico. E chiarì con estremo rigore i limiti di applicazione della legge, affermando che lo «straordinario potere di scioglimento

 

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degli organi elettivi conferito all'autorità amministrativa (...) è previsto nella ricorrenza di talune situazioni, fra loro alternative, quali a) i collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata, b) le forme di condizionamento degli amministratori, ma sempre che risulti che l'una o l'altra situazione compromettano la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali nonché il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, ovvero quando il suddetto collegamento o le suddette forme di condizionamento risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica».
      Nei provvedimenti di scioglimento, pertanto, deve emergere «chiaramente il determinarsi di uno stato di fatto nel quale il procedimento di formazione della volontà degli amministratori subisca alterazioni per effetto dell'interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata».
      Alla luce di questi princìpi stabiliti dalla Corte costituzionale, nelle modifiche proposte all'articolo 143, commi 1 e 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si definisce la fattispecie in maniera più rigorosa e dettagliata.
      Anche perché negli ultimi anni, il limite posto dalla Corte costituzionale, e cioè la necessità di elementi certi ed indiscussi per procedere allo scioglimento, sta fortemente vacillando.
      La definizione legislativa, infatti, consente eccessivi margini di discrezionalità interpretativa, che sta comportando forti differenziazioni applicative, a seconda dei singoli uffici territoriali del Governo, differenziazioni che, peraltro, si riscontrano anche nelle interpretazioni giurisprudenziali. A tal fine basta la semplice analisi del quadro complessivo degli scioglimenti in questi recentissimi tempi per rilevare che non vi è giusto equilibrio tra numero di scioglimenti che avvengono nelle province e livello di pervasività delle organizzazioni criminali.
      Se vi fosse, infatti, una univocità interpretativa vi dovrebbe essere il maggior numero di scioglimenti laddove la presenza della criminalità organizzata è più forte. Il che non è.
      Ed allora risulta chiaro che ormai l'interpretazione della legge è soggetta a forti margini di discrezionalità da parte dei singoli uffici territoriali del Governo, che hanno parametri di valutazione fortemente differenziati, il che è esattamente il contrario di quanto aveva richiesto la Corte costituzionale nella sua sentenza n. 103 del 1993. Di qui la necessità di individuare una migliore delimitazione della fattispecie, che non consenta margini di discrezionalità ed abbia come effetto l'adozione di criteri univoci su tutto il territorio.
      Un'altra necessità di modifica ed aggiornamento è data dal fatto che il quadro normativo nel frattempo è completamente cambiato.
      La legge fu pensata ed approvata in un'epoca in cui non esisteva l'elezione diretta dei sindaci, il potere di gestione era interamente nelle mani degli organi elettivi e l'attività delle giunte municipali e dei consigli comunali erano vere e proprie attività di gestione della cosa pubblica.
      La conseguenza di tutto ciò era che il tentativo di infiltrazione, che è sempre un tentativo di infiltrazione nella gestione, era un tentativo che riguardava direttamente gli organi politici.
      Tutto ciò è ormai profondamente modificato.
      Il sindaco non è più frutto di una mediazione tra i partiti politici, ma di una investitura popolare.
      I consiglieri comunali non hanno più compiti di gestione, ma solo ed esclusivamente compiti di indirizzo politico-amministrativo.
      Rispetto a questo mutato quadro normativo è evidente che la normativa in oggetto, risalente al 1990 richiede un adeguato aggiornamento.
      Si propone, pertanto, di distinguere il caso in cui l'infiltrazione riguardi il singolo consigliere (articolo 143, comma 1, del citato testo unico) dai casi in cui essa
 

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riguardi il sindaco o parti rilevanti dell'organo elettivo (articolo 143, comma 2).
      Nel caso del coinvolgimento del sindaco, infatti, la circostanza è particolarmente grave, anche perché, nell'evoluzione del concetto stesso di sicurezza, evoluzione che negli ultimi anni è stata profonda, sempre più anche i sindaci sono individuati come soggetti partecipi e protagonisti della sicurezza nel territorio del loro comune. Conseguenza, questa, della elezione diretta dei sindaci e, quindi, della necessità di individuare gli stessi come la prima barriera tra legalità ed illegalità.
      In questa logica, nel 1998, si firmò per la prima volta in Italia, il «contratto di sicurezza», in cui appunto si riconosceva il principio che erano innanzitutto i sindaci i protagonisti in materia di sicurezza e che quindi essi avevano pieno diritto a sedere al tavolo del Comitato per l'ordine pubblico per combattere in prima linea insieme alle altre forze dell'ordine la battaglia della legalità.
      Ed allora è evidente che il coinvolgimento di un sindaco non può che portare al commissariamento del comune.
      Diversa è l'ipotesi del coinvolgimento di singoli consiglieri.
      Non appare equo, infatti, criminalizzare l'intera classe dirigente di un comune, sciogliendo l'intero consiglio comunale, in presenza di episodi isolati, in cui invece appare indispensabile distinguere e selezionare, al fine di consentire che lo forze sane del consesso sociale possano continuare ad impegnarsi nell'amministrazione. L'attuale scioglimento generalizzato dell'intero consiglio comunale, in presenza di infiltrazioni di limitati e singoli soggetti, sta comportando, infatti, l'effetto perverso dell'allontanamento proprio delle forze migliori della società civile, che ingiustamente vengono coinvolte in un generalizzato giudizio di contiguità alla criminalità organizzata.
      Un'ulteriore proposta di modifica riguarda i dirigenti. L'attuale sistema legislativo, infatti, non prende in considerazione i dirigenti, perché la legge è precedente a tutte le innovazioni legislative che hanno portato alla attribuzione dei compiti di gestione ai dirigenti. Oggi, pertanto, si può arrivare al paradosso che le contiguità della criminalità organizzata sia con la classe degli enti locali e non con la classe politica, ma non vi è uno strumento adeguato per intervenire. Di conseguenza la proposta di legge prevede norme di intervento anche su questi soggetti, prevedendo forme di allontanamento graduate (articolo 143, comma 6-bis).
      E nuove norme di intervento sono anche previste per le società miste, anche queste non disciplinate dalla normativa del 1990 e che, invece, ormai costituiscono il cuore degli affari economici di un ente locale (modifiche all'articolo 146).
      Solo intervenendo anche su questi soggetti si possono effettivamente evitare le forme di infiltrazione che la criminalità organizzata attua nei confronti degli enti locali, che non riguardano più solo la gestione degli appalti delle opere pubbliche, ma anche tutto il settore delle forme di gestione dei servizi pubblici.
 

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